VI

IL 1819

Alla prospettiva della delusione, riferita soprattutto alla sorte dell’Italia contemporanea, si ricollega, a ben vedere, anche una canzone scritta nella primavera del ’19 e destinata inizialmente dal Leopardi alla pubblicazione, risolutamente impedita dal padre Monaldo, allarmato dall’argomento scabroso di quel componimento, e poi piú tardi rifiutata dallo stesso Leopardi (insieme all’altra canzone coeva) per evidenti ragioni di gusto.

La canzone di cui parliamo trattava (come ben indica lo stesso lungo e pesante titolo: Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo)[1] un fatto di cronaca nera, la vicenda realmente avvenuta della morte, in seguito a un tentativo fallito di aborto, di una giovane signora che aveva commesso un fallo extraconiugale ed era stata indotta dal seduttore a tentare appunto l’aborto.

La canzone, nelle intenzioni del Leopardi, voleva costituire una riprova della decadenza morale del tempo presente, con una nuova ragione di sdegno e di compianto sulla propria età, mancante di generosi sentimenti privati come lo era di alte virtú patriottiche e civili.

E la canzone si apre con versi che ben precisano questo raccordo del nuovo argomento trattato con quelli delle canzoni patriottiche: «Mentre i destini io piango e i nostri danni, / ecco nova di lutto / cagion s’accresce a le cagioni antiche» (vv. 1-3).

E insieme la canzone si ricollegava a quel proposito di una poesia fondata su argomenti attuali con cui il poeta intendeva adeguarsi al metodo dei classici e distinguersi da quello dei classicisti piú pedanteschi trattando argomenti del proprio tempo e non di quello «degli antenati»[2].

Mentre par chiaro che nella stessa discussione con i romantici il Leopardi ne aveva pure sentito qualche stimolo e attrazione se adesso si rivolgeva a trattare soggetti che nel Discorso di un italiano aveva condannato come manifestazioni di un patetico feroce[3].

Da questi propositi, che si riflettono anche in un tipo di linguaggio piú ibrido tra forme auliche e forme realistiche mal fuse, nacque un componimento esteticamente assai scadente, sia, come dicevo, per il linguaggio incerto, enfatico, faticoso (si pensi a versi come questi: «e non calse / a quegli orsi del volto / sudato e bianco», vv. 35-37), sia per la costruzione generale scomposta e disordinata, in cui si alternano movimenti enfatici di sdegno e pietà (sdegno per il “corruttore” che non esita a esporre alla morte la donna che gli si era concessa; pietà per la donna vittima di una passione invincibile), tentativi assai grezzi di rappresentare realisticamente la stessa scena dell’operazione chirurgica implacabilmente eseguita malgrado lo spasimo della donna:

Misera, invan le braccia

spasimate stendesti, ed ambe invano

sanguinasti le palme a stringer volte,

come il dolor le caccia,

gli smaniosi squarci e l’empia mano. (vv. 43-47)

E infine una specie di singolare consolatoria diretta alla infelice donna, che mescola forti accenti pessimistici e un’esaltazione dell’amore nella sua intrinseca nobiltà e purezza.

È in quest’ultima parte (le strofe ottava, nona e decima) che, pur in un contesto che non raggiunge sicuro esito artistico, si muovono elementi piú densi ed interessanti, legati al contrasto fra la delusione storica, un piú profondo senso di infelicità personale ed esistenziale e l’ardente tensione leopardiana a valori vitali e immacolati.

Sí che pur merita riportare queste strofe come documento dell’intenso ingorgo di motivi in sviluppo e della situazione sentimentale del Leopardi in questo periodo:

Or dunque ti consola

o sfortunata: ei non ti manca il pianto,

né mancherà mentre pietade è viva.

Mira che ’l tempo vola,

e poca vita hai persa ancor che tanto

giovanetta sei morta.

Ma molto piú che misera lasciasti

e nequitosa vita

pensando ti conforta;

però che omai conviene che piú si doglia

a chi piú spazio resta a la partita.

E tu per prova il sai, tu che del mesto

lume del giorno ha spoglia

tuo stesso amante, il sai che mondo è questo.

Ecco l’incauto volgo accusa amore

Che non è reo, ma ’l fato

ed i codardi ingegni, onde t’avvenne

svegliar la dolce fiamma in basso core.

Voi testimoni invoco,

spirti gentili: in voi, dite, per fiato

avverso è spento il foco?

Dite, di voi pur uno

è che non desse a le ferite il petto

per lo suo caro amor? Tu ’l vedi o solo

raggio del viver mio diserto e bruno,

tu ’l vedi, amor, che s’io

prendo mai cor, s’a non volgare affetto

la mente innalzo, è tuo valor non mio.

Che se da me ti storni,

e se l’aura tua pura avvivatrice

cade o santa beltà, perché non rompo

questi pallidi giorni?

Perché di propria man questo infelice

carco non pongo in terra?

E in tanto mar di colpe e di sciaure

qual altr’aita estimo

avere a l’empia guerra,

se non la vostra infino al sommo passo?

Altri amor biasmi, io no che se nel primo

fiorir del tempo giovanil, non sono

appien di viver lasso,

m’avveggio ben che di suo nume è dono. (vv. 99-140)

L’insieme, ripeto, è faticoso, ma quanti motivi leopardiani vi affiorano insieme a espressioni piú intime e poetiche: come quel «mesto lume del giorno», con la sua vibrazione luminosa e malinconica; come quel «viver mio diserto e bruno» o quei «pallidi giorni» che pertengono alle forme piú intensamente elegiache della espressività leopardiana.

Anche piú interessante nella prospettiva di una intuizione pessimistica personale ed esistenziale che va sviluppandosi all’interno della delusione storica (e come vivaio di motivi leopardiani nascenti), appare l’altra canzone della primavera del ’19, anch’essa poi non raccolta nei Canti a causa del giudizio di incompiutezza artistica che il Leopardi ne dette piú tardi.

Anch’essa è ben lungi dalla sicurezza di articolazione delle due canzoni patriottiche e accumula elementi e motivi non bene svolti e fusi, con un linguaggio spesso assai grezzo e incerto. Ma nella sua impostazione di dolore e di pietà per una fanciulla destinata a morte precoce (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale)[4], prevale piú chiaramente una posizione di pessimismo che giunge a toni di protesta contro il fato e contro la natura; toni che anticipano le forme piú elaborate e concettualmente consolidate di anni piú tardi e mostrano come il Leopardi venisse di fatto già staccandosi da concezioni provvidenziali e religiose.

E su questa base si possono individuare vari motivi leopardiani di grande importanza per il loro sviluppo futuro. Anzitutto il motivo pessimistico di base consolidato in vari punti della canzone. Cosí, nella strofa settima, l’affermazione della invincibilità del fato contro cui gli uomini inutilmente lottano:

Poveri noi mortali

che incontro al fato non abbiam valore.

Sta come sconcio masso, e noi ghermito

Meglio che può con queste braccia frali,

Poniam di sbarbicarlo ogni sudore;

Ma quello è tal da poi, qual fu davante. (vv. 79-84)

Cosí, nella strofa ottava, la risoluta intuizione di una natura crudele:

[...] natura

n’ha fatti a la sciaura

tutti quanti siam nati. [...] (vv. 97-99)

che, nella strofa nona, è portata a un tono ancor piú perentorio di denuncia e protesta:

E chi diritto guata,

nostra famiglia a la natura è gioco. (vv. 116-117)

Un altro motivo ricco di svolgimenti futuri è quello della inesorabilità della morte e della impersuasione del Leopardi di fronte alla scomparsa delle persone e della loro irripetibile, insostituibile individualità concreta. Motivo che apre la canzone:

Io so ben che non vale

beltà né giovanezza incontro a morte;

e pur sempre ch’io ’l veggio m’addoloro. [...] (vv. 1-3)

e su cui il Leopardi ritorna piú volte con toni di accesa pietà e di appassionata impersuasione, sottolineando l’assurdità della immaginata scomparsa totale della fanciulla malata e l’impossibilità del proprio sopravvivere:

Ch’io dica, è morta quell’istessa, quella

ch’io veggio? e mi favella?

Or s’ella è morta, ed io come son vivo?

Questo io so che mai vero

non fia, ch’a intender pure io non l’arrivo. (vv. 58-62)

O ripresentandosi, con piú minuti e struggenti particolari, la sproporzione crudele fra la presenza giovanile, bella, radiosa della fanciulla viva e la sua definitiva, eterna partenza dal regno dei viventi:

Ed è pur tanto bella

e tanto schietta e in cosí verde etade,

e poco andrà ch’io potrò dire, è morta,

è morta e non risponde: ahi poverella!

Che dolor, che lamento, che pietade,

chiusi quest’occhi, e morto questo volto,

e ’l popolo raccolto

dirle per sempre addio, ch’esser doveva

tanto tempo fra noi;

or non so chi né come ce la leva:

solo a pensarlo mi si schianta il core,

ben ch’i parenti tuoi

son d’altro sangue, e tu sei d’altro amore (vv. 14-26)

È questo un grande motivo della poesia leopardiana che si realizza altamente nella lirica dello sparire di figure giovanili e liete (si pensi a Silvia nel canto omonimo o a Nerina nelle Ricordanze) e che si alimenta di quella impersuasione di fronte alla morte degli altri (non la morte propria, sentita come liberazione dalle proprie sofferenze), che trova espressione anche in molti pensieri dello Zibaldone (con la conclusione che il nostro disperato dolore di fronte alla morte delle persone care, alla loro totale perdita della vita, all’impossibilità di mai piú rivederle, prova come noi, in profondo, non crediamo in una vita ultraterrena)[5]. Mentre il sentimento crudele della cesura inesorabile della morte (nessuna esperienza e saggezza può consolarcene e privare quel fatto della sua assurdità, incredibilità), la rappresentazione dell’addio per sempre, della separazione eterna, della situazione disperata di chi sopravvive alle persone amate, ritorneranno, a distanza di tanti anni e in una realizzazione poetica tanto piú alta, in una strofa del canto Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accommiatandosi dai suoi:

Già se sventura è questo

morir che tu destini

a tutti noi che senza colpa, ignari,

né volontari al vivere abbandoni,

certo ha chi more invidiabil sorte

a colui che la morte

sente de’ cari suoi. Che se nel vero,

Com’io per fermo estimo,

il vivere è sventura,

grazia il morir, chi però mai potrebbe,

quel che pur si dovrebbe,

desiar de’ suoi cari il giorno estremo,

per dover egli scemo

rimaner di se stesso,

veder d’in su la soglia levar via

la diletta persona

con chi passato avrà molt’anni insieme,

e dire a quella addio senz’altra speme

di riscontrarla ancora

per la mondana via;

poi solitario abbandonato in terra,

guardando attorno, all’ore ai lochi usati

rimemorar la scorsa compagnia?

Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre

di strappar dalle braccia

all’amico l’amico,

al fratello il fratello,

la prole al genitore,

all’amante l’amore: e l’uno estinto,

l’altro in vita serbar? Come potesti

far necessario in noi

tanto dolor, che sopravviva amando

al mortale il mortal? Ma da natura

altro negli atti suoi

che nostro male o nostro ben si cura. (vv. 75-109)[6]

Un altro motivo importante reperibile in questa canzone è poi quello del contrasto fra la gioventú, piena di vitalità, di entusiasmo, di purezza, di illusioni e la vecchiaia in cui quel mondo ardente e puro si logora, si contamina nel conformismo, nella viltà, nella vile prudenza e nell’egoismo. Motivo che, nella formazione ed educazione dei sentimenti leopardiani, poteva risentire della solita lezione alfieriana (specie nella tragedia La congiura de’ Pazzi dove l’entusiasmo del giovane Raimondo è contrapposto alla prudenza e alle incertezze del vecchio padre che ha perso l’ardore e la generosità della sua giovinezza: «Quanto in servir fa dotto / la gelida vecchiezza», At. I, sc. 2, vv. 8-9), e che si estremizza nella ipersensibilità morale leopardiana, sviluppandosi poi entro piú tarde poesie (si pensi al finale del Passero solitario) e animando, nella canzone ora studiata, quel finale consolatorio in cui alla giovane donna, destinata a morte precoce, si propone il conforto di una morte giovanile e quindi innocente, non contaminata dal logoramento morale della vecchiaia, e dal malvagio esempio di tempi decaduti e corrotti:

Ma questo ti conforti

sopra ogni cosa, ch’innocente mori,

né ’l mondo ti spirò suo puzzo in viso.

Tutti tuoi pari andran tosto fra’ morti,

e avranno il piú di lor fracidi i cori;

che questo mondo è scellerata cosa,

e quel mal che non osa

candida gioventute, è scherzo al vile

senno d’età provetta,

e nefanda vecchiezza; e in cor gentile

quel che natura fe’ spegne l’esempio,

tanto che poco aspetta

quel giusto ed alto a farsi abbietto ed empio. (vv. 118-130)

Sicché negli ultimi versi si ribadirà conclusivamente questa consolatoria:

Fra nequitosa gente,

qual se’ discesa, tale a la partita,

cara, o cara beltà, mori innocente. (vv. 149-151)

illuminata da quell’ardente platonismo leopardiano («Cara, o cara beltà»), che troverà esito altissimo nella canzone del ’23 Alla sua Donna.

Insomma questa canzone, pur nella sua incerta consistenza poetica, nella scompostezza dell’articolazione, nella prosasticità di certi aspetti del suo linguaggio, è documento prepoetico interessantissimo.

Nella primavera del ’19 poi il Leopardi si impegnò, in vista di un progettato romanzo di tipo wertheriano mai scritto, in una fitta serie di appunti, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, che vengono avviando quel nuovo e piú intenso scavo nella propria profonda sensibilità, presente anche entro le pieghe piú intime delle stesse canzoni patriottiche, dove tuttavia era stato subordinato all’impegno lirico-eloquente.

In questi ricordi, stesi in forma di appunti spesso frettolosi e troncati, con improvvisi passaggi da scena a scena, da pensiero a pensiero, non mancano (a parte la prospettiva ricordata di un romanzo che rivela un’ambizione e un proposito che vanno al di là della semplice via idillica) anche appunti e pensieri che si ricollegano alle idee politiche e civili leopardiane (ad esempio il luogo in cui si ritorna al ricordo dell’orazione agli italiani del 1815 con un’apostrofe al Murat: «scelleratissimo sappi che se tu stesso non ti andasti ora a procacciar la tua pena io ti avrei scannato con queste mani ec. quando anche nessun altro l’avesse fatto ec. Giuro che non voglio piú tiranni»)[7].

Ma certo vi prevale un gusto di brevi scene, di movimenti sensibilissimi che preparano soprattutto la via di quella fase idillica che costituirà l’impegno poetico maggiore di quell’anno e proseguirà, dopo la canzone Ad Angelo Mai, ancora nel ’20-21.

Si rilegga cosí questa rapida e sensibilissima presentazione di una figura di fanciulla vagheggiata dal poeta e colta nella sua mobilità e ingenuità giovanile e conclusa con un movimento sentimentale piú intenso:

[...] vista già tanto desiderata della Brini ec. mio volermi persuadere da principio che fosse la sorella quantunque io credessi il contrar. persuaso da Carlo ec. suo guardare spesso indietro al padrone allora passato ec. correr via frettolosam. con un bel fazzoletto in testa vestita di rosso e qualche cosa involta in fazzoletto bianco in una mano ec. nel suo voltarsi ci voltava la faccia ma per momenti ed era istabile come un’ape: si fermava qua e là ec. diede un salto per vedere il giuoco del pallone ma con faccia seria e semplice, domandata da un uomo dove si va? a Boncio luogo fuori del paese un pezzo per dimorarvi del tempo colla padrona noi andarle dietro finché fermatasi ancora con alcune donne si tolse (non già per civetteria) il fazzoletto di testa e gli passammo presso in una via strettiss.; e subito ci venne dietro ed entrò con quell’uomo nel palazzo del padrone ec. miei pensieri la sera turbamento allora e vista della campagna e sole tramontante e città indorata ec. e valle sottoposta con case e filari ec. ec. mio innalzamento d’animo elettrizzamento furore e cose notate ne’ pensieri in quei giorni e come conobbi che l’amore mi avrebbe proprio eroificato e fatto capace di tutto e anche di uccidermi [...].[8]

Oppure quest’altra immagine della fanciulla rivista all’improvviso e poi sognata di notte in una direzione idillico-patetica che troverà continuazione poetica nell’idillio-elegia Il sogno:

[...] finché tornandomi lasciata troppo tardi la compagnia e senza speranza la rividi pure all’improvviso, sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente e poi domandarle io la mano a baciare ed ella torcendo non so di che filo porgermela guardandomi con aria semplicissima e candidissima e io baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora solo in sogno per la primissima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vivo e restai attonito e conobbi come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un bacio e perder di vista tutto il mondo come allora proprio mi parve e svegliato errai un pezzo con questo pensiero e sonnacchiando e risvegliandomi a ogni momento rivedevo sempre l’istessa donna in mille forme ma sempre viva e vera ec.[9]

O infine questa scena piú completa e tale da costituire quasi una vera e propria poesia in prosa, con il suo folto, graduato e pausato succedersi di sensazioni, di impressioni, di voci colte da una sensibilità acutissima e risolte in un passaggio da malinconia a rasserenamento, da osservazione della realtà a creazione di un’atmosfera poetica che può essere assai indicativo per certi aspetti della futura poesia leopardiana:

[...] giardino presso alla casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa ec. sedevano scherzando sotto al lanternone ec. si sballottavano ec. comparisce la prima lucciola ch’io vedessi in quell’anno ec. uno dei due s’alza gli va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla poverella l’esortava ad alzarsi ec. ma la colpí e gittò a terra e tornò all’altro ec. intanto la figlia del cocchiere ec. alzandosi da cena e affacciatasi alla finestra per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro = stanotte piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello = e poco dopo sparisce il lume di quella finestra ec. intanto la lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n’accorse tornò = porca buzzarona = un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. e poi ec. finché la cancella. Veniva un terzo giovanotto da una stradella in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi e borbottando ec. l’uccisore gli corre a dosso e ridendo lo caccia a terra e poi lo porta ec. s’accresce il giuoco ma con voce piana come pur prima ec. ma risi un po’ alti ec. sento una dolce voce di donna che non conoscea ne vedea ec. Natalino andiamo ch’è tardi – Per Amor di Dio che adesso adesso non faccia giorno – risponde quegli ec. sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti e tutto di tratto in tratto e da se senza prender parte ec. cresce la baldoria ec. C’è piú vino da Girolamo? passava uno a cui ne domandarono ec. non c’era ec. la donna venia ridendo dolcemente con qualche paroletta ec. oh che matti! ec. (e pure quel vino non era per lei e quel danaro sarebbe stato tolto alla famiglia dal marito) e di quando in quando ripetea pazientemente e ridendo l’invito d’andarsene e invano ec. finalmente una voce di loro oh ecco che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e tutti si ritirarono e s’udiva il suono delle porte e i catenacci ec. e questa scena mi rallegrò [...].[10]

Questi Ricordi d’infanzia e di adolescenza preparano, dicevo, la produzione idillica e idillico-elegiaca che si apre alla metà del ’19 e che, dopo l’intervallo costituito dalla canzone Ad Angelo Mai, si prolunga entro gli anni 1820-21, con risultati, vedremo, di diversa intensità e profondità poetica. Ché in questi componimenti, che il Leopardi intitolò «idilli» (ripensando agli idilli classici di Mosco e di Teocrito e insieme a quelli preromantici del Gessner) e che pubblicò solo nel 1826, considerandoli in un primo tempo quasi documenti piú privati e lontani dalla linea di lirica solenne e civile che riteneva piú adatta alla divulgazione pubblica, si deve notare una certa oscillazione fra una concezione piú tradizionale dell’idillio e quella piú profonda e personale concezione cui piú tardi lo stesso poeta dette forma; parlando di idilli come «esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del [proprio] animo»[11].

Come si può subito verificare, anche nella considerazione di alcuni argomenti di idilli si trovano temi che piú chiaramente riportano a un tipo di idillio piú pittoresco e quadrettistico, piú legato a una concezione letteraria dell’idillio tradizionale. Come può vedersi dall’inizio in versi dell’argomento intitolato Le fanciulle nella tempesta:

Donzellette sen gian per la campagna

correndo e saltellando, cogliendo fiori, giocando ec.

Né s’avvedean che sopra agli Appennini

da lungi s’accoglieva un tempo nero

e brontolava lungamente il tuono.

Ma quelle nol badar però che ’l sole

rideva ancor sulla fiorita piaggia.[12]

E tale diversità di intensità e di centralità e di raccordo delle sensazioni e del paesaggio con «situazioni, affezioni, avventure storiche del [proprio] animo» si può notare anche entro la breve serie di idilli composti nel 1819, nel periodo in cui, dopo il fallito e drammatico tentativo di fuga dalla casa paterna e da Recanati, il Leopardi si ripiegò piú decisamente nello scavo della sua sensibilità e del suo sentimento personale.

L’idillio piú marginale e sostanzialmente debole, pur se contraddistinto sempre da un gusto squisito e delicato (e non privo di allusioni a sentimenti e pensieri leopardiani), può essere considerato quel componimento che, intitolato inizialmente prima Sogno e poi Lo spavento notturno (e cosí pubblicato nel ’26), venne poi escluso dall’edizione dei Canti del 1831 e riaccolto in quella del ’35, nel gruppo finale dei Frammenti, col numero XXXVII[13] (e cosí facendo il poeta mostrava chiaramente di considerarlo un componimento minore, adatto a una specie di appendice di poesie meno impegnative).

In questo idillio si svolge un dialogo fra due pastori, Alceta, piú ingenuo e giovanile, e Melisso, piú maturo e ironico perché dotato di esperienza e di ragione. L’impostazione a dialogo e l’ambientazione pastorale, piú chiaramente simile a quella degli idilli classici e gessneriani, e il tono e il linguaggio tendono a rendere un senso di primitività, di popolarità che si riconnette a un’idea dell’idillio come rappresentazione di stati d’animo, di sensazioni e di impressioni poco complesse, di personaggi pastorali e rusticali (secondo un pensiero dello Zibaldone, in cui il Leopardi notava che i veri idilli teocritei italiani non erano tanto gli artefatti prodotti umanistici, come quelli del Sannazzaro, quanto i componimenti rusticali, come la Nencia da Barberino o il Cecco da Varlungo)[14].

Sarà ovvio notare che, cosí facendo, il Leopardi pur si ricollegava a motivi ben suoi (si pensi alle osservazioni sulla schiettezza e ricchezza poetica dei fanciulli e degli individui popolari e istintivi nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica). E perciò egli cercava di rendere anche nel linguaggio, specie in quello del piú genuino Alceta, un certo tono popolaresco, ingenuo, un andamento semplice, quasi lievemente impacciato, con ripetizioni, insistenze, con immagini che materializzano le impressioni piú favolose, cosí evidenti appunto nel lungo racconto di Alceta:

Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno

di questa notte, che mi torna a mente

in riveder la luna. io me ne stava

alla finestra che risponde al prato,

guardando in alto: ed ecco all’improvviso

distaccasi la luna; e mi parea

che quanto nel cader s’approssimava,

tanto crescesse al guardo; infin che venne

a dar di colpo in mezzo al prato; ed era

grande quanto una secchia, e di scintille

vomitava una nebbia, che stridea

sí forte come quando un carbon vivo

nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

la luna, come ho detto, in mezzo al prato

si spegneva annerando a poco a poco,

e ne fumavan l’erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,

ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,

ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro. (vv. 1-20)

Dove, ripeto, ben si avverte questa elegantissima e sapientissima imitazione di modi ingenui e popolari (la sintassi costruita per aggiunte; le asserzioni ripetute, tipiche di un racconto popolare: «come ho detto»; l’immagine materiale della luna paragonata a una «secchia»; il paragone semplicistico e familiare: «come quando un carbon vivo / nell’acqua immergi e spegni» ecc.), ma con una sorta di compiacimento che, se non esclude note piú fini e sottili, (come quel «Si spegneva annerando a poco a poco, / e ne fumavan l’erbe intorno intorno», che fa pensar di lontano al gusto del digradare delle sensazioni che tornerà con tanta suggestione intima in certi passi della Sera del dí di festa), riconduce questo idillio a una sapiente ed elegante elaborazione di motivi meno profondi e centrali.

E se l’incontro delle voci dei due pastori, con il loro diverso grado di esperienza, può far pensare al grande uso che di due diverse voci farà il Leopardi in tante delle Operette morali ed è condotto avanti nell’ultima parte del componimento con innegabile abilità (la voce trasognata e ingenua di Alceta, quella saggia, ironica, un po’ saccente del ragionevole e incredulo Melisso), esso rimane pur sempre su di un piano appunto di abilità[15]. Cosí come la voce ingenua del pastore Alceta, immaginoso nella sua primitività (e vicino dunque di piú alla natura e ai bei sogni che la ragione sopprime) è ben lungi dalla voce del pastore del grande Canto notturno in cui il pastore potrà porre, pur nella sua condizione di rappresentante dell’uomo piú semplice e schietto, le piú ardue domande sulla sorte umana.

A un livello certo piú alto e da uno strato piú profondo dell’animo leopardiano, nasce l’idillio Alla luna (tale titolo sostituisce, nell’edizione dei Canti del ’31, il titolo iniziale La ricordanza, probabilmente anche per diversificare tale lirica dalle Ricordanze del 1829). In esso vive, intrecciato a un colloquio tenero con la luna, il motivo del ricordo che pur essendo ricordo di una situazione dolorosa tuttora persistente, ha in sé una gradazione di singolare dolcezza:

O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l’anno, sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, né cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri![16]

Qui siamo assai lontani dall’impostazione del frammento XXXVII, non vi sono pastori né ambiente pastorale, e il poeta parla direttamente di sé e di una situazione del suo animo.

E certo il motivo del ricordo doloroso e dolce è un motivo ben leopardiano e collegato a molteplici pensieri dello Zibaldone di questi anni (si pensi, nello stesso 1819, al pensiero sul piacere degli anniversari[17], o a quello, piú importante, del 25 ottobre 1821, sul piacere delle ricordanze anche di cose dolorose «quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l’accresca» [1987])[18], per non dir poi del valore che la ricordanza assumerà nella grande poesia dei canti pisano-recanatesi del ’28-29 fino a costituire il tema fondamentale delle Ricordanze (anche se in quella grande poesia il ricordo del passato «Dolce per sé» porta a un paragone doloroso col presente e a un sentimento profondo dello svanire irrecuperabile di tutte le cose che si collegano a una tematica piú complessa e profonda).

D’altra parte dovrà ricordarsi come nella formazione di questo motivo del ricordo doloroso ma dolce, al livello della sua formulazione in Alla luna, debba aver agito una componente di quella formazione letteraria e sentimentale di cui parte cospicua è costituita dalla lettura dei Canti di Ossian, tradotti dal Cesarotti (e dei Nuovi canti di Ossian tradotti da Michele Leoni), sulla cui generale grande importanza per il Leopardi io ho a lungo insistito nel saggio, già ricordato, su «Leopardi e la poesia del secondo Settecento» (e basti qui almeno sottolineare come gli endecasillabi sciolti cesarottiani poterono sostenere l’uso degli sciolti degli idilli leopardiani). Orbene, nei Canti di Ossian il motivo della ricordanza e rimembranza è piú volte atteggiato proprio nella direzione di un incontro di tristezza e di dolcezza sia che si riferisca al ricordo di gioie passate («A rimembranza di passate gioie: / ch’a un tempo all’alma è dilettosa e trista»), sia che comporti una sua particolare voluttà: «Giocondo è sempre / il rimembrarvi, benché al pianto invogli»[19].

Questa stessa vicinanza del testo ossianesco e di una lata temperie preromantica e tardo-settecentesca piú aggraziata e preziosa contribuisce a una interpretazione dell’idillio Alla luna in una gradazione di minore intensità e profondità rispetto al capolavoro di questo periodo, L’infinito; interpretazione che si diversifica parzialmente dal giudizio troppo interamente positivo che ne dette il De Sanctis.

Certo si tratta di un componimento compatto, squisito, svolto con una voce affettuosa, delicata e pura e con una specie di alta affabilità che è pure importante componente della futura e maggiore produzione leopardiana dei grandi canti pisano-recanatesi.

Ma insieme vi si avverte una certa gracilità e tenuità, una sfumatura di edonismo e di pittoresco piú prezioso («O graziosa luna», «E pur mi giova», «Oh come grato»), che ancora risente di toni tardo-settecenteschi, cosí come vi vibra qualche nota piú tremula e preromantica («Ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia»).

E tanto piú tali limiti appaiono se si rilegge la poesia nella sua stesura originaria, priva dei versi 13 e 14 che furono aggiunti dal Leopardi solo poco prima della morte, con una correzione a penna sulla edizione napoletana dei Canti. Con quella aggiunta, che voleva anche precisare la differenza fra il suo sentimento piú maturo e la situazione giovanile del 1819, tutto il finale della poesia acquistò un respiro maggiore e una maggiore complessità.

Si rilegga cosí l’ultimo periodo dell’idillio com’era nel ’19:

[...] Oh come grato occorre

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri!

E lo si confronti con la nuova stesura definitiva:

[...] Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar delle passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri!

Ma anche con l’aggiunta tarda l’idillio ha in sé una forza piú gracile, inerente del resto allo stesso tema centrale ben leopardiano, ma piú esiguo, non cosí centrale e assoluto come è quello della grande scoperta e del possesso del sentimento dell’infinito nella poesia omonima.

L’infinito, che è certo la prima grande poesia leopardiana, supera di gran lunga non solo i limiti di idillio pastorale del frammento XXXVII, ma anche i margini di sensibilità e sentimentalità piú tenera e gracile di Alla luna. Ogni tentazione di pittoresco, di colorito piú prezioso e leggiadro, di eccessiva vibrazione patetica (il «tremulo dal pianto» di Alla luna) sono qui eliminate e tutta la poesia si estrinseca in forme sensibilissime, ma essenziali, di estrema sobrietà energica e assoluta, organicamente derivate da un tema possente e centrale, assicurate da una misura e da un controllo artistico perfetto, frutto, come vedremo, di una elaborazione profonda e incontentabile, di un impegno formale di alta classicità (e si ricordi quanto il Leopardi diceva contro i romantici circa la maggior naturalezza e schiettezza che si raggiunge non con l’immediatezza effusiva, ma con lo studio e con l’arte). Ma questo strenuo impegno artistico corrisponde alla potenza e forza del motivo poetico centrale, al saldo possesso di una centrale intuizione poetica alimentata organicamente, radicalmente da una suprema fusione di elementi di fantasia, di sensibilità, di pensiero, di esperienza matura.

Sicché sarà subito da osservare, per ben comprendere la genesi e la natura di questa poesia, che essa non può venir considerata come un moto istintivo di puro abbandono alla semplice sensibilità (pur cosí acuta e profonda com’è in questo componimento), come un’errabonda fantasticheria e rêverie sensibilistica e spiritualistica, come una serie di impressioni e di sensazioni effusive, misticheggianti, sfociate in un alone vago, in un’atmosfera puramente suggestiva, secondo modi di certa poesia e arte romantica e predecadente (fra Lamartine, Novalis e Wagner, tanto per intendersi e senza voler con ciò definire in sede di valore la varia forza degli autori qui citati).

Il fatto fondamentale è che il Leopardi (il quale pur risentiva nella genesi di questa sua poesia di tante sollecitazioni adiuvanti della poesia e letteratura di fine Settecento che aveva già indagato e insistito su impressioni e intuizioni del sentimento dell’infinito[20], e cosí si ricollegava storicamente a una tensione spirituale e poetica di una zona tanto a lui vicina) costruí questo suo capolavoro impegnandovi tutte le forze della sua esperienza, adibendole a una “avventura storica” del suo animo, alla scoperta di una dimensione dell’infinito che arricchiva e approfondiva a sua volta tutto il suo animo e la sua intuizione della complessità dell’uomo e della realtà umana.

Sicché par da rifiutare (malgrado la sua altezza e genialità) quella parte dell’interpretazione desanctisiana dell’Infinito che puntava sull’atteggiamento di un primitivo e sulla sua scoperta e adorazione del numinoso. Mentre è pur da rifiutare la limitazione desanctisiana riguardo a una certa intrusione di intellettualismo («Vo comparando»).

In realtà l’atteggiamento leopardiano nell’Infinito è quello di un uomo ricco di esperienza, di profondità di pensiero, di sensibilità e di fantasia (non ingenuo e puramente istintivo) e la presenza del pensiero non è intrusione intellettualistica, ma essenziale componente di una poesia che trae la sua forza da un’intuizione fantastica e sensibile, alimentata da una profonda e intrinseca meditazione, come proprio avviene nella poesia piú grande e matura.

Occorrerà cosí ricollegare l’Infinito a tutto un lungo percorso fra intuizioni e meditazioni che si svolge fra il ’19 e gli anni immediatamente seguenti entro lo Zibaldone e che, seppure con una maggiore complessità speculativa, riconduce alla genesi di quel componimento legato a un processo di pensiero in fieri.

Fra i molti pensieri citabili in proposito, gioverà soprattutto ricordare la lunga meditazione del luglio 1820 che (si noti bene) raccorda il sentimento e il piacere dell’infinito alla teoria leopardiana del piacere e della felicità come massimo fine cui tende la natura umana[21]. Sicché, si noti subito, il tema centrale della poesia studiata si riconnette a uno dei temi fondamentali della prospettiva leopardiana, non a un motivo marginale e secondario, e cosí assume tanto piú una sua profonda serietà e centralità.

E basti qui richiamare, di questa lunga e complessa meditazione, alcuni passi piú interessanti per noi:

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e piú materiale che spirituale. L’anima umana (e cosí tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. [165]

Sicché (e si noti come il Leopardi da buon sensista sottolinei una causa piú materiale che spirituale e cosí ci allontani da una interpretazione di tipo religioso e spiritualistico del sentimento dell’infinito), l’uomo, non trovando la felicità nei singoli piaceri, si volge soprattutto all’idea dell’infinito servendosi della sua facoltà immaginativa che gli offrirà il compenso di visioni illimitate nello spazio e nel tempo. E tanto meglio se l’illimitato sorgerà per contrasto dalla vista di una cosa reale e limitata:

La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. [171]

Sicché, alla luce di questo pensiero meglio si può capire anche come la conclusione della poesia («E il naufragar m’è dolce in questo mare») esprima non tanto uno sfocio mistico e spiritualistico, quanto l’esito di un severo e profondo piacere, di una forma alta di felicità e di pienezza dell’animo che è giunto al possesso del sentimento dell’infinito.

E tutta la poesia traduce perfettamente, attraverso il succedersi delle sensazioni, dalla vista reale alla vista immaginativa e piú profonda (che dalla limitatezza della prima è fatta scattare a contrasto), attraverso il costante e fuso controllo del pensiero (donde l’estrema collaborazione di sensibilità e di pensiero e l’estrema suggestività e chiarezza essenziale del linguaggio), questo itinerarium in infinitum, questa progrediente presa di coscienza del sentimento e del piacere dell’infinito:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.[22]

Alla suprema limpidezza, chiarezza, sobrietà del linguaggio (che riassorbe e contiene l’estrema suggestività delle sensazioni e della fantasia senza mai disperderla in forme effusive, impressionistiche, evanescenti), alla musica profonda, cosí lontana da ogni mero musicalismo esteriore e disorganico, corrisponde un’articolazione perfetta del componimento nelle sue parti intervallate da pause e da riprese che sottolineano, con una crescente novità e alacrità di approfondimento, il percorso di questo itinerario dell’intero animo del poeta nella progrediente presa di coscienza del sentimento dell’infinito.

Prima i tre versi iniziali, che con pacata e sicura disposizione prospettano la cara consuetudine contemplativa del poeta e le entità reali della sua prima vista. Poi, dal verso 4 al verso 8, sull’appoggio di una prima pausa e dell’accordo dei gerundi che ripropongono, con un suono piú dolce, l’atteggiamento contemplativo di base, si apre il movimento e la prospettiva della vista e della sensazione interiore e immaginativa, che scatta dal contrasto opposto dal limite della siepe e coerentemente si approfondisce nelle parole che indicano l’illimite e nel progresso della visione interna, agevolato dall’uso replicato dell’enjambement. Per concludersi nella energica presa di coscienza dell’operazione immaginativa del poeta («Io nel pensier mi fingo») e nell’esitazione non insistita, e ben precisata nei suoi limiti, di un primo (e poi superato) spaurirsi del cuore. Poi, dal centro del verso 8 e fino al verso 13, la terza parte costituita da un ritorno alla sensazione presente che apre subito la via al piú profondo e folto svolgersi della prospettiva interiore, con un movimento che a taluno parve piú accumulatorio e che viceversa, sulla via ancor piú suggestiva dell’infinito temporale, porta coerentemente un maggior numero di elementi in progresso e un suono piú alto (con una allusione a quel sentimento della caducità di tutti i tempi e di tutte le cose che tornerà piú esplicito in un passo della Sera del dí di festa).

Donde una pausa maggiore in rapporto a questo movimento piú intenso e numeroso e l’ultima breve parte conclusiva che suggella, proprio nella massima espansione della immaginazione che sopraffà il pensiero, la dolce e severa presa di possesso di questo sentimento e piacere supremo: non tanto, ripeto, un abbandono, uno sconfinamento mistico ed estatico, quanto un saldo possesso di questa suprema dimensione interna che ha arricchito e approfondito l’animo del poeta, l’ha dotato di una suprema forma di piacere e di singolare felicità.


1 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 323-324.

2 Cfr. Della condizione presente delle lettere italiane, Disegni letterari, III, 4, in Tutte le opere, I, pp. 368-369.

3 E fra i disegni letterari di quell’anno c’è un titolo (Storia di una povera monaca nativa di Osimo che disperata, essendosi monacata per forza, si uccise gittandosi da una finestra), che rappresenta una prova ulteriore di questa attrazione verso vicende di chiaro tipo romantico. Tutte le opere, I, p. 367.

4 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 321-322.

5 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 1144-1145.

6 Tutte le opere, I, p. 37.

7 Tutte le opere, I, p. 363.

8 Tutte le opere, I, p. 364.

9 Tutte le opere, I, p. 364.

10 Tutte le opere, I, pp. 363-364.

11 Disegni letterari, XII, in Tutte le opere, I, p. 372.

12 Tutte le opere, I, p. 336.

13 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 45-46.

14 Cfr. Tutte le opere, II, p. 39.

15

MELISSO: E ben hai che temer, che agevol cosa

fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA: Chi sa? non veggiam noi spesso di state

cader le stelle?

MELISSO: Egli ci ha tante stelle,

che picciol danno è cader l’una o l’altra

di lor, e mille rimaner. Ma sola

ha questa luna in ciel, che da nessuno

cader fu vista mai se non in sogno. (vv. 21-28)

16 Tutte le opere, I, p. 18.

17 Cfr. Tutte le opere, II, p. 40.

18 Tutte le opere, II, p. 535.

19 La morte di Cucullino, vv. 141-142 (in Poesie di Ossian, figlio di Fingal, antico poeta celtico, trasportate in italiano dall’Abate Melchior Cesarotti, con correzioni, nuove dissertazioni e aggiunte, 4 tomi, Pisa, dalla tipografia della Società Lett., 1801); L’Incendio di Tura, in Nuovi canti di Ossian, pubblicati in inglese da Giovanni Smith, e recati in italiano da Michele Leoni, Firenze, presso Vittorio Alauzet, 1813, p. 292.

20 Si possono cosí ricordare certi brani delle Notti di Young o di Gessner, già citati; si possono ricordare certe espressioni di Angelo Mazza (gli «interminati aerei campi» – nel poemetto La Laurea in Legge, in Opere, del signor Angelo Mazza fra gli Arcadi Armonide Elideo, 5 voll., Parma, per Giuseppe Paganino, 1816-1820, III, p. 104 – o un sonetto sull’eternità culminante in questi versi: «D’affetti intanto e di pensieri ondeggio [...] Quando il confin, cui circoscrisse il dito / de l’Eterno, m’arresta; e qui vagheggio / in caligin l’idea de l’Infinito», vv. 9 e 12-14 – Opere cit., II, p. 104) e soprattutto si deve ricordare la pagina della Vita alfieriana già citata.

21 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 79-82.

22 Tutte le opere, I, p. 17.